lunedì 5 giugno 2017

UNA BEFFA LUNGA QUASI MEZZO SECOLO: LA JUVE IN COPPA CAMPIONI



È iniziata prima che nascessi. La Coppa Campioni era stregata già allora: 1973, finale contro l’imbattibile Ajax del “calcio totale”. 1-0, rete di Rep dopo quattro minuti. Zoff raccoglie nel sacco il pallone. Per i successivi ottantasei minuti la Juve non segna, imbrigliata nella fitta rete di passaggi degli olandesi e nel loro possesso palla. Insomma, non ero nemmeno nato e già avevo perso una finale di Coppa Campioni.
Passano dieci anni. Io sono al mondo da nove anni, ho assistito ad alcune vittorie in Italia, poi arriva il 25 maggio 1983: finale di Coppa dei Campioni ad Atene. La Juventus è favoritissima: ha in campo Platini, Boniek, Paolo Rossi, Tardelli, Cabrini, Zoff (che è ai saluti), ha eliminato i campioni uscenti dell’Aston Villa. Di fronte, come avversario, l’Amburgo, discreta squadra tedesca. Dovrebbe essere l’occasione buona. E invece no, anche questa volta: 1-0 per gli altri, gol di Magath al 9’ minuto (Zoff sta a guardare questo pallone scagliato da lontano che scende all’improvviso). Nei successivi ottantuno minuti la Juve ci prova, ma non è serata, lo si capisce subito che le Parche hanno deciso così: avremmo potuto giocare due giorni senza poter segnare una rete all’Amburgo.
Si comincia a mormorare che questa Coppa sia stregata per la Juventus, chissà perché. Due finali, due sconfitte per 1-0, subendo un gol nei primi minuti e non riuscendo a reagire né a segnare almeno la rete del pareggio. Ma non ci si perde d’animo, perché nel frattempo in Europa la Juve vince: nel 1977 ha conquistato la Coppa UEFA, nel 1984 vince finalmente in una gara finale secca la Coppa delle Coppa, battendo a Basilea per 2-1 il Porto. A dicembre 1985 arriverà la Coppa Incerconitale conquistata a Tokyo. Sfatato il tabù? Insomma.
E siamo al 29 maggio 1985: è quasi la Juve di due anni prima, ma con alcuni giocatori chiave in declino o in procinto di andarsene (Rossi, Tardelli e Boniek). Sarà la volta buona? L’avversario è di tutto rispetto: la squadra inglese del Liverpool, già battuto a gennaio sotto la neve per 2-0, nella gara per la Supercoppa Europea (altro trofeo europeo in saccoccia). Il Liverpool peraltro l’anno prima, 1984, ha sconfitto la Roma in finale ai calci di rigore.
Allora, io ho 11 anni. E mi chiedo: vinceremo questa benedetta Coppa dei Campioni? La giornata è stata vanamente lunga, con quella inutile gita scolastica a San Benedetto Po. Poi il ritorno a Bergamo e lì, sul divano, con il cuore che batte a mille a guardare i miei eroi. Ma evidentemente gli dei del calcio, quando si tratta di Juventus e Coppa Campioni, non stanno mai quieti. La partita non comincia. Ci sono degli incidenti tra i tifosi. Gli hooligan (tifosi inglesi carichi di birra) assaltano gli juventini: cedono le fragili gradinate dello stadio Heysel ed è una carneficina. 39 morti, di cui 35 tifosi italiani, per lo più deceduti per asfissia, schiacciati dalla marea umana che fugge terrorizzata. Altro dramma, non sportivo questa volta. Forse questa Coppa è davvero stregata. La Juventus vince 1-0, gol di Platini su rigore (che non c’era), giocando in un’atmosfera spettrale, tra le sirene delle ambulanze e gli appelli degli altoparlanti affinché i tifosi mantengano la calma. Sì, abbiamo vinto la Coppa, ma come si fa a festeggiare? Lo capisco anche io, a 11 anni, che non è aria.
Nel 1996 sono un uomo, ho anche la morosa. E finalmente si vince una Coppa senza tragedie. A Roma. Ora la Coppa dei Campioni si chiama Champions League. È il sorriso di Jugovic a farmelo capire: quando si avvicina all’area per battere l’ultimo rigore, quello decisivo, Jugovic ha un mezzo sorriso. Il suo gol ci regala la Coppa, dopo che abbiamo giocato alla grande contro l’Ajax, dopo aver gettato al vento molte occasioni da rete. È un’illusione piacevole: nonostante la vittoria, alcuni segni che mostrano che questa Coppa sia stregata ci sono anche nel 1996. È infatti una Juventus padrona del campo, che segna quasi subito con Ravanelli, che domina, che subisce un gol su una disattenzione difensiva, e che poi spreca occasioni a raffica. Insomma, abbiamo vinto ai rigori forse perché qualche divinità malefica, anti-juventina, s’è distratta per qualche minuto, tra le parate di Peruzzi e il sorriso di Jugovic.
1997: io ho un’altra morosa, e gli dei del calcio, palesemente anti-juventini, sono tornati vigili e attenti. Hanno preparato a pennello la fregatura, il solito modo atroce di farci perdere le finali. Allora, la Juventus nel 1996-97 è forte: Del Piero, Boksic e Zidane in attacco, Ferrara in difesa, alcuni giovani promettenti come Amoruso e Vieri. Nel novembre 1996 si vince la Coppa Intercontinentale a Tokyo, rete di Del Piero. A febbraio 1997 vittoria nella Supercoppa Europea, rifilando in due partire ben 9 gol al Paris St. Germain. Infine, in Champions League una cavalcata bellissima, senza sconfitte, dominando quasi sempre gli avversari, fino alla semifinale con l’Ajax, contro cui giochiamo due partite perfette: vittoria 2-1 in Olanda e 4-1 a Torino, con Zidane che sale in cattedra, dando lezioni di calcio.
Sembra una Juve invincibile, quella che scende in campo da favorita a Monaco di Baviera il 28 maggio 1997. Avversario il Borussia Dortmund, pieno di ex juventini con il dente avvelenato: Moeller, Kohler, Reuter e Paulo Sousa (che nel 1996 ha vinto la Coppa con la Juve). Insomma, sembra facile: ovviamente, invece, va tutto storto. Un altro scarto del calcio italiano, Riedle, segna due gol di testa facili facili, con la nostra difesa che sta a guardare. È dura svegliarsi dal sogno, ritrovarsi sotto di due reti senza nemmeno capirne il motivo. Io sul divano impreco, credo sia un incubo. Ma il meglio (cioè il peggio) deve ancora venire. Nel secondo tempo Del Piero segna di tacco il gol dell’1-2. Mancano venticinque minuti, c’è tempo. No, non scherziamo: cinque minuti dopo Ricken segna da centrocampo la rete del 3-1, con Peruzzi che esce svagato fino alla tre-quarti di campo, forse pensando al figlio nato il giorno prima. Una nottata che si preannunciava molto dolce e che invece è diventata nera. Tutto quello che poteva andare storto è andato storto. E siamo alla terza finale persa su cinque disputate.
1998: ancora una Juve forte, magari meno d’acciaio dell’anno prima, ma forte. Io sono lì davanti al televisore con la morosa dell’anno prima. È il 20 maggio. Primavera nell’aria, scudetto appena conquistato dopo le roventi polemiche con l’Inter. Ovviamente tutta l’Italia non juventina si augura di cuore la sconfitta della Juventus. Sarà accontentata. Siamo alla quarta finale persa su sei disputate. L’avversario è il Real Madrid, squadra di tutto rispetto. La fortuna, ovviamente, ci volta le spalle: Del Piero s’infortuna qualche giorno prima della finale e scende in campo acciaccato. La squadra gioca maluccio, il Real non fa nulla di speciale, finché al 66’ Mijatovic segna l’1-0 (in fuorigioco). È la fine: al 75’ Davids ha un’occasione d’oro per pareggiare, ma la spreca, poi tutto finisce in un’altra notte a piangere in mezzo al campo, a sperare che sia solo un brutto sogno, a sentirsi depressi, senza quasi voglia di fare l’amore.
Gli anni passano, siamo al 2003. Ho ventinove anni, un’altra morosa ancora. La squadra è forte, vince il campionato senza troppi patemi. In Champions va avanti con un po’ di fortuna, ma quando “il gioco si fa duro” le cose vanno a meraviglia. Viene eliminato il Barcellona grazie a una partita eroica in Spagna: vittoria 2-1 nei tempi supplementari con gol di Zalayeta, giocando in dieci contro undici. E poi, in semifinale, nella gara di ritorno, la partita che condensa il senso della nostra disgraziata partecipazione a questa Coppa. Una competizione in cui gli dei del calcio si divertono a illudere il tifoso juventino facendogli assaporare il bello della vittoria solo per farlo soffrire meglio nel momento atroce della sconfitta.
Lo scenario è questo: 14 maggio 2003, Torino, semifinale di ritorno contro il Real Madrid. All’andata il Real ha vinto 2-1. La situazione si può ribaltare. E il primo tempo è da favola: 2-0, con gol di Trezeguet e Del Piero, dopo una prestazione bellissima, contro un Real in grande forma. Nel secondo tempo prosegue lo scontro epico: Ronaldo (l’ex interista) al 56’ sbaglia un rigore, parato da Buffon. Al 72’ il nostro miglior giocatore, in odore di Pallone d’Oro, ossia Pavel Nedved, corre tutto solo verso la porta e segna il 3-0. È l’apoteosi, una gioia immensa per una serata perfetta. Alt, “quasi” perfetta, come al solito il destino ci mette lo zampino. Nedved è un giocatore prezioso, bravissimo e generoso. Sul 3-0, con la partita in pugno, andrebbe sostituito perché è diffidato. È stato infatti ammonito nel turno precedente e, in caso di ammonizione in questa partita, salterà la finale per squalifica. Io penso: “Siamo sul 3-0, il Real sembra morto, per eliminarci dovrebbe fare 2 gol, insomma, che senso ha lasciare in campo Nedved? O almeno spero che lui non faccia falli pericolosi”. Ovviamente succede quello che non dovrebbe accadere: Nedved rimane in campo, fa un fallo bruttino e inutile a centrocampo, viene ammonito e dunque automaticamente squalificato per la finale.
Non è nemmeno necessario dire che nella finale di Manchester contro il Milan, il 28 maggio 2003, la Juve perde.  È la quinta sconfitta su sette finali disputate. Una partita noiosa, una Juve che gioca male senza Nedved, con Zalayeta al posto di Di Vaio, contro un Milan scarso. Io per fortuna la partita non la vedo perché sono in Francia per assistere a un convegno filosofico. La mia morosa mi aggiorna via sms. Perdiamo malamente ai rigori, con Schevchenko che forse non sorride come Jugovic, ma che regala la Coppa al Milan, allenato da Ancelotti, giubilato due anni prima proprio da noi. La solita beffa atroce, architettata alla perfezione dagli dei avversi.
E siamo al 2015. Nel frattempo mi sono sposato, ho una figlia, ho trovato un lavoro in biblioteca, insomma sono cresciuto. Sempre nel frattempo c’è stata calciopoli, la Juve è stata in B, è morta, e risorta e così via. Ha ripreso a vincere in Italia (nel 2015 vince il quarto scudetto di fila e la Coppa Italia grazie ad Allegri). Questa volta la Champions League parte in sordina, con le solite difficoltà, poi, come per incanto, la ruota gira. Agli ottavi viene eliminato il Borussia Dortmund (tiè, vendicata la sconfitta del 1997), ai quarti, a fatica, viene eliminato il Monaco (1-0 a Torino, 0-0 in Francia) e in semifinale di nuovo il Real Madrid. Che ha in squadra un altro Ronaldo, Cristiano. È un trionfo: vittoria 2-1 a Torino e pareggio 1-1 a Madrid con gol di Morata. L’allenatore del Real è Ancelotti. Così, senza nemmeno rendercene conto, siamo in finale. Perderemo 3-1 contro un fortissimo Barcellona, ma già così sembra un successo. Certo, siamo alla sesta sconfitta su otto finali disputate. Infine, siamo al 2017. Il solito film perfetto dell’orrore. Non vale la pena parlarne perché la ferita sanguina ancora, e ancora per molto tempo sanguinerà.
Dal 1973 al 2017 sono passati 44 anni. Abbiamo disputato nove finali e ne abbiamo perse sette. Peccato che nella realtà non esista il tasto “rewind” né la combinazione CTRL+Z per annullare l’ultima azione. È un record negativo difficilmente eguagliabile. È uno scherzo continuo del destino, la sensazione o la pazza speranza, che ogni volta replica stancamente se stessa, che si tratti solo di un brutto sogno, che la finale vera si debba ancora giocare, che non sia possibile aver perso un’altra partita. È la solita notte insonne, con le lacrime sulle ciglia, trascorsa a inseguire i fantasmi di una sconfitta senza rivincita, rimandata chissà a quando, sempre con poca voglia di tutto, anche dell’amore. È una notte che non finisce mai, che si vorrebbe trattenere con le mani perché non si trasformi in alba, in risveglio, in una domenica dal sapore di cenere che si deve vivere nonostante tutto. È la sensazione di svegliarsi con la bocca secca e amara, ed essere indifferenti verso ogni cosa: il sole, il sorriso di mia figlia, le vere tragedie che avvengono nel mondo. È come sentirsi Ettore che sfida Achille, l’immortale (o quasi), sapendo di essere votato allo sconfitta, ma non potendo evitare di battersi.


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