domenica 26 marzo 2017

Assalone, Assalonne! (W. Faulkner)


Scriveva Borges nel 1937 a proposito di Assalonne, Assalonne!: “A Faulkner piace esporre il romanzo attraverso i personaggi. Il metodo non è del tutto originale ... ma Faulkner vi trasfonde una intensità quasi intollerabile. In questo libro di Faulkner vi è un’infinita decomposizione, un’infinita e nera carnalità”. Un grande scrittore che coglie bene il nucleo di un’opera di un altro grande scrittore, qual è stato William Faulkner (1897-1962). Il libro venne pubblicato nel 1936, ed è considerato tra i più difficili e drammatici tra quelli scritti da Faulkner. Il titolo è un personaggio biblico, Assalonne, crudele e vendicativo (cfr. il II Libro di Samuele), che tentò di usurpare il trono del padre David, ma venne sconfitto e trucidato.
La storia che Faulkner racconta è molto complessa, sia per l’intricato intreccio delle vicende che la caratterizzano, sia per la struttura del libro. La storia è descritta a posteriori dai personaggi che l’hanno vissuta, oppure da chi, come Quentin, il giovane narratore della parte finale, l’ha sentita raccontare dal nonno e dal padre. È il racconto della illusoria floridità e della rapida decadenza di un personaggio diabolico, Thomas Sutpen, personaggio senza scrupoli, violento, rozzo, insensibile, razzista e schiavista, sullo sfondo della guerra civile americana del 1861-1865. Il destino amaro del protagonista trascinerà con sé, nella polvere, anche la sua sfortunata discendenza.
Il romanzo, dunque, non è narrato né in prima né in terza persona; ma, come detto, si svolge seguendo il racconto di diversi personaggi. Il lettore deve stare molto attento per non perdere il filo: infatti, le vicende sono descritte da punti di vista eterogenei, e i salti temporali sono frequenti, tanto che si passa dal 1833, l’anno in cui Sutpen apparve nella contea di Yoknapatawpha nel Mississippi, al 1909, al momento della conclusione definitiva della vicenda. Si percorrono quasi ottant’anni di storia americana, segnati dalla guerra civile, alla quale parteciparono sia Sutpen, sia suo figlio Henry, sia la figlia Judith, sia l’amico di costui, Charles Bon, un ragazzo nato anni prima da una relazione tra Sutpen e una donna di colore haitiana. Il periodo chiave del racconto, però, concerne il quinquennio 1861-1865, allorché si svolgono i fatti che costituiscono la parte predominante dell’intreccio. Per il lettore è utilissima la cronologia posta alla fine del libro, nonché la descrizione delle vicende dei diversi personaggi: solo in questo modo è possibile non smarrirsi mentre si segue, a fatica, lo svolgersi delle drammatiche vicende descritte del libro.
La scrittura è intensa, i periodi sono lunghi, traboccanti di subordinate, di parentesi che spesso si aprono senza chiudersi; la narrazione a volte è affidata a brandelli di lettere, ricordi spezzati, racconti riferiti da altri. Sullo sfondo troneggia la diabolica figura di Thomas Sutpen, un uomo che rovina qualunque cosa tocchi o qualunque essere umano cada nella sua sfera d’influenza. Da giovane, trasferitosi ad Haiti, aveva avuto un figlio da una donna; quando ha saputo che questa donna aveva sangue “negro”, l’ha ripudiata, abbandonando il figlio, che era Charles Bon, futuro amico di suo figlio Henry Sutpen, e futuro fidanzato di Judith Sutpen.
La sensazione principale, leggendo la storia, è che tutti questi personaggi siano legati da un destino tragico, predeterminato, al quale non possono sfuggire. Sullo sfondo aleggia la figura di Thomas Sutpen, il quale non narra nulla, non ha quasi voce, dal momento che sono gli altri, quelli legati a lui da diversi rapporti, a prestarli voce. D’altra parte: com’è possibile rappresentare il male? Dice Judith, la figlia, a proposito della presenza “assente” del padre, del suo esserci: “Lui non era lì. Qualcosa mangiava con noi; noi parlavamo a questo qualcosa ed esso rispondeva alle nostre domande; sedeva con noi davanti al fuoco la sera e, levandosi senza preavviso, da qualche profonda e stupefatta inerzia completa, parlava, non a noi … ma all’aria”.
Dunque quando torna dalla guerra civile, Sutpen è un “qualcosa”. Trova a casa la figlia, Judith, Clytie, una ragazza di colore avuta da una relazione con una schiava, e la giovane cognata, Rosa Coldfield, alla quale farà un proposta di matrimonio. Perché naturalmente la moglie, Ellen Coldfield, è morta. Tutto muore accanto a lui. È un demonio che trasforma in cenere qualunque cosa egli tocchi. Ma è anche un uomo che da ragazzo è stato mortificato da un proprietario terriero e che, per reazione, cercherà per tutta la vita di divenire lui stesso un proprietario terriero, calpestando gli altri e i propri stessi figli, le donne, per arrivare a essere ricco.
Un libro come questo non si può riassumere in poche righe. I temi sono moltissimi e i colpi di scena, descritti senza enfasi retorica, sono sempre presenti. Il rapporto tra i fratelli Sutpen, Judith ed Henry, appare ambiguo, quando giunte tra loro Charles Bon, amico intimo di Henry, e presto fidanzato di Judth. Ma Charles è figlio illegittimo di Sutpen: il sospetto diviene certezza allorché Sutpen si reca a New Orleans per accertarsene. A questo punto egli si oppone all’unione incestuosa, senza spiegarne i motivi, ma imponendo la sua volontà, tragicamente come sempre. Poi Charles morirà in guerra, e chi soffrirà maggiormente per questa perdita è Henry, il quale vede in Charles l’uomo che sarebbe voluto essere. Dunque fantasie omosessuali e incestuosi, simbiosi e scambio di personaggi: “dovette essere Henry a sedurre Judith, non Bon: a sedurla… mediante quella telepatia con cui da piccoli parevano a volte precorrere l’uno le azioni dell’altra così come due uccelli lasciano un ramo nello stesso istante; quel rapporto quale potrebbe esistere tra due persone… abbandonate alla nascita su un’isola deserta: l’isola in questo caso era Sutpen’s Hundred: la solitudine, l’ombra di quel padre con cui non solo il paese ma perfino la famiglia materna aveva ipotizzato un armistizio anziché accettarlo e assimilarli”.
Al di là dell’intreccio, quel che riluce nelle pagine di Faulkner è la desolazione dell’animo umano, la consapevolezza che l’abisso del male è sempre spalancato davanti all’uomo. Sarebbe facile affermare che gli eventi tragici del ‘900 abbiamo confermato tale idea; in realtà, Faulkner non asserisce una verità storica, bensì filosofica, ossia universale e generalizzata. E non è casuale il richiamo alla Bibbia del titolo: il romanzo è infatti una storica appartenente alla notte dei tempi, un’epopea tragica e assoluta, fatta da dolore, desolazione, disfacimento etico e umano. E gran parte di questa epopea si dipana per opera del “mostro”, del patriarca Sutpen, il quale incarna il male perché agisce creando dolore. Ma lui stesso è stato umiliato e ferito da ragazzo. Ciò significa che la catena dei mali è ininterrotta e che le vendette non portano altro se non male ulteriore. Per questo Sutpen non può essere scusato, perché, come nell’antichità, chi è gravato da un destino tragico, è comunque colpevole. Tuttavia, a differenza degli eroi omerici, che anche nella tragedia, nel compiere il male, possedevano una grandezza e una fierezza indomabili, Sutpen si sottrae al proprio ruolo: non è fiero né eroico, né capace di compiere il male attivamente. È un uomo avido, vendicativo, che pensa a se stesso, al proprio benessere e che non è nemmeno capace di concepire odio verso qualcuno, perché vive solo per se stesso. Su di lui, e sui suoi discendenti, grava una colpa atavica, qualcosa che non può essere espresso e che li conduce tutti alla rovina, lentamente, senza che loro possano attivamente muoversi per impedire che lo sfacelo si compia.
Insomma, è come se esistesse un Fato che ha già deciso i destini dei personaggi, i quali appunto non possono sottrarsi ad esso. In questo modo i miti greci si mischiano con i personaggi biblici: Caino e Abele, ma anche Edipo, fino a creare un racconto drammatico, senza speranza. Il lettore è messo a dura prova: la stessa struttura del libro, complessa perché composta da registri narrativi eterogenei, richiede un grande sforzo. Da un lato vi è certamente l’influsso di Joyce, dall’altro permangono gli stilemi del romanzo ottocentesco classico, nei quali la trama di snoda con coerenza e linearità. Ma si tratta solo di momenti, perché Assalonne, Assalonne! trascende le forme narrative per porsi come esempio di tragedia classica esposta in chiave moderna. I suoi eroi non hanno la grandezza di quelli greci: per loro la vita è passata e sono solo ombre che non lasciano più traccia. Nessuno andrà a trovarli nell'Ade: la loro esistenza è narrata a posteriori, da chi li ha conosciuti, o è narrata da loro stessi con l’amarezza assoluta di dover ammettere che il proprio destino, iscritto nella carne sin dal loro concepimento, è stato spietato.
Forse l’autore vuole dire che il venire al mondo è di per sé qualcosa che immette l’individuo in un “groviglio” fatale, perché vivere significa incontrarsi con tante altre persone che, tutte quante, cercando felicità, benessere e successo. Anzi, ognuna “tenta” di essere qualcosa, senza sapere mai se ci riuscirà. Ognuno cerca di lasciare una traccia di sé di diversi modi, una “scalfittura”. E mentre ognuno prova ad agire per se stesso, non fa altro che toccare e danneggiare gli altri, i cui tentativi di emergere sono quasi sempre vani, finché il tempo scade, arriva la morte, e rimane pochissimo di sé, forse un blocco di marmo con qualche segno: “Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché, solo continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone, tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché, tranne che le cordicelle s’impicciano tutte a vicenda, come sarebbe a dire cinque o sei persone tutte intente a cercare di fare una stuoia sullo stesso telaio, solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e non può avere importanza, lo sapete, sennò Coloro i quali impiantarono il telaio avrebbero predisposto le cose un po’ meglio, eppure deve avere importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi tutt’a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con qualche scalfittura sopra, purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra e il sole ci splende, e dopo un po’ non si ricordano neppure il nome e quello che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza. E così forse se tu potessi andare da qualcuno… e dargli qualcosa – un pezzo di carta – qualcosa, qualunque cosa, non certo perché abbia un significato in sé e gli altri non debbono neppure leggerlo o tenerlo, nemmeno preoccuparsi di buttarlo via o distruggerlo, almeno sarebbe qualcosa giusto perché sarebbe accaduto, sarebbe ricordato quand’anche solo passando da una mano all’altra, da una mente all’altra, e sarebbe almeno una scalfittura, qualcosa, qualcosa da poter lasciare un segno su qualcosa che ‘fu’ una volta per il motivo che può morire un giorno, mentre il blocco di pietra non può essere ‘è’ perché non può mai diventare ‘fu’ perché non può mai morire…”.

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