venerdì 23 ottobre 2015

DIARIO DI UN BIBLIOTECARIO IN FASCE



12 marzo



Molto tenero il signore anziano che domanda i libri leggendo i titoli da una lista vergata sui contenitori delle bustine da tè. I titoli sono scritti con la tipica grafia tremolante degli anziani, quella che mischia maiuscole e minuscole. Forse non è una persona abituata a scrivere; forse ha paura che le sua scrittura venga derisa. Chissà. Ha un’andatura dinoccolata, magari per il peso degli anni, oppure perché ha un timore reverenziale verso i libri. Sembra voglia scusarsi per il disturbo quando entra in biblioteca. Come se avesse le pattine ai piedi, non lo si sente avvicinarsi. Appare di fronte al banco quasi all’improvviso; è silenzioso, attende che gli si rivolga la parola volgendo lo sguardo verso di lui, come se pensasse che ci sia sempre qualcosa di più importante da fare che occuparsi di lui o qualcuno di più importante cui prestare attenzione.
Il suo volto è congestionato, mite, tipico degli anziani timidi. La bocca è piccola, il tono di voce modesto: è un uomo abituato a non sprecare parole; un tempo era biondo quasi di certo, ora è canuto. I capelli sono pettinati con la riga, come in quelle fotografie datate che c’inteneriscono perché sono in bianco e nero, mentre se fossero a colori ci lascerebbero indifferenti o ci farebbero sorridere.
È un lettore onnivoro, naturalmente preferisce la narrativa. È bello pensare che, dopo aver bevuto il tè, raccoglie il contenitore per bustine, conservandolo come cosa preziosa, forse perché un tempo, quando lui era ragazzo, non si buttava via niente. Poi, quando ha finito il libro in lettura e ne vuole altri, riprende in mano il contenitore per bustine, lo squaderna davanti a sé, scrivendoci sopra i titoli dei libri che vorrebbe leggere, faticando con le mani grasse, nodose, lavorative, temprate dal gelo, dal caldo, dagli anni, o non so da cosa altro ancora. Anche le mani sono rosse. Avrà avuto una vita lavorativa non facile.
Quest’uomo ha più di ottant’anni. Non guarda mai negli occhi. Sarà stato abituato a fare così per rispetto verso chi, secondo lui, lavorando in mezzo ai libri, sa più cose di quelle che lui conosce. Non avrebbe senso smentirlo. Fargli capire che una vita intera è già di per sé una storia, piena di fatti, di persone, di voci. Lui di certo ha vissuto il fascismo e la guerra, la ricostruzione, le illusioni del dopoguerra. Insomma, dovrebbe averne di cose da raccontare. Chissà quante volte lo ha fatto, ai figli, ai nipoti, alla moglie. Oppure non l’ha fatto mai, non ha mai raccontato niente a nessuno. Non voglio cadere nella retorica: non dico che la vita vissuta sia meglio dei libri. Dipende dai libri e della vita. Tuttavia tutti noi uomini siamo tutti piccoli mondi che contengono tantissime cose, tanti fatti, magari insignificanti, che però, presi assieme, danno forma a un’esistenza, a una biografia, a un racconto…
Quando l’uomo se ne va con il libro in mano, saluta appena, con quella “antica cortesia” che, per dirla alla Guccini, mi dà un “piacere assurdo”. Esce dalla biblioteca in silenzio, di nuovo timoroso di disturbare. In attesa della prossima bustina di tè, del prossimo contenitore per bustine, dei prossimi libri da leggere, dei suoi giorni lunghi che non passano mai.
 



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