venerdì 27 agosto 2010

Cesare Pavese sessant’anni dopo



Lo steddazzu

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossate il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Vai la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

Cesare Pavese si è tolto la vita a Torino il 27 agosto 1950 a quarantadue anni. Sono passati sessant’anni, ma egli è ancora presente nella cultura italiana. Mi piace ricordare la sua figura con questa poesia; forse Pavese è apprezzato più come narratore che come poeta, ma io credo che il suo modo di verseggiare sia raffinato, anche se lontano dagli stilemi ermetici o simbolisti. Il suo interesse per la letteratura americana (celebre è la sua attività di traduttore, nonché l’interesse per la Spoon River Anthology, poi tradotta per Einaudi da Fernanda Pivano con Pavese come mentore) lo ha reso poeta-narratore, dal verso pieno, cadenzato, quasi privo di metafore, simboli o di oscuri riferimenti poetici.
La poesia è stata scritta nel 1936, durante il confino a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria (il titolo è nel dialetto del luogo). Penso sia un capolavoro come poesia dell’angoscia di esistere e della noia; di certo il confino, costringendo lo scrittore all’inattività, acuiva il senso di incompletezza di se stesso che egli percepiva sempre vivissimo. Ma il poeta qui trasferisce sul pescatore la sua angoscia, quasi a voler dire che l’angoscia esistenziale non abbandona mai l’uomo, sia che egli viva immerso nella brulicante città, sia che viva da intellettuale, sia che viva come povero pescatore.
L’angoscia è resa, nella poesia, creando un’atmosfera di attesa indefinita, vana, e un sentimento del tempo greve, sottolineata dalla esasperante “lentezza dell’ora”, dalla domanda “Vai la pena che il sole si levi dal mare/e la lunga giornata cominci?”, e poi dalla certezza che oggi sarà come ieri, cioè nulla accadrà, come avverte l’incipit della seconda strofa. È l’idea per cui l’attesa vana, l’inerzia dell’esistenza, la vita che non fluisce, l’indifferenza, la mancanza di sentire, è qualcosa di ben peggiore anche del dolore, della sofferenza. Ne Il mestiere di vivere leggiamo, alla data del 30 ottobre 1940: “La forza dell’indifferenza! – è quella che ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni di anni”. L’apatia come scelta imposta diventa la vera condanna a morte. Questa poesia è un cammeo, un’altra dimostrazione della sensibilità acuta, forse troppo acuta, di Cesare Pavese.
A proposito della sua poesia, egli afferma il 10 novembre 1935, che “Se una figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa, che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere una donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare”.

Pavese si uccide con un colpo di pistola. Forse a causa dell’ultima delusione amorosa? Di certo non solo per quella, ma non lo sapremo mai, né dovrebbe interessarci. Il suicidio è un atto intimo e personale: non conta stabilire se Pavese si sia ucciso per una pena d’amore (l’ennesima) o per altro; è certo che, sia ne Il mestiere di vivere, sia nelle poesie di Lavorare stanca, si colgono riferimenti al suicidio. Soprattutto penso a una poesia del 1940, Il paradiso sui tetti:

Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.

Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell'ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.

Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.

Chissà se, scrivendo queste righe il 24 aprile 1936, Pavese fosse del tutto sincero: “Bisogna avere la smania dell’autodistruzione. Non parlo del suicidio: gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di ‘raccontarla’, non può arrivare al suicidio se non per imprudenza. E poi, il suicidio appare ormai come uno di quegli eroismo mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell’uomo davanti al destino, che interessano statutariamente, ma ci lasciano a noi”.
Rimane la sua fama, la sua grande capacità di raccontare con uno stile rapido ma meditato, allergico ai verbalismi, alla logorrea oratoria; diretto, incisivo, chiaro, all’americana. E rimane l’immagina di un uomo tormentato, inquieto, deciso a non sopportare il peso della vita. Pavese sapeva di aver dato molto agli uomini, ma non era felice, aveva ricevuto poco oppure non aveva voluto ricevere nulla. Scrive il 16 agosto 1950, undici giorni prima di uccidersi: “La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”. E il 18 agosto, le ultime righe scritte nel suo diario recitano: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”

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